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Delle luci colorate. Ho il mento su una lastra in plastica e tra i denti un parallelepipedo di materiale sconosciuto, estraneo a me per lo meno. Rosso, intenso, tendente all’arancio, poi Giallo, che dal colore del sole diventa come erba bruciata e poi il Verde, verde prato, verde acqua. Iniziano i rumori, strani, meccanici, clacson, indefiniti. Le mie orecchie vibrano disturbate. Gli occhi puntati sullo specchio che mi sta di fronte, concentrati a controllare che nessun muscolo facciale si muova, neanche il più piccolo. Mi hanno detto di stare ferma. Potrei sempre rimanere immobile per ore ma quando mi dicono di farlo è come se una forza irresistibile mi mettesse in moto, insensato, non capisco. Due strisce di laser rosso compaiono proiettate sul mio viso, o nello specchio non lo so dire. Sono perfettamente centrate la punta del mio naso sul meridiano di Greenwich, i miei occhi sull’Equatore. Il mio viso non è simmetrico, questo è certo. Le luci si attenuano. La musica cambia. Una sinfonia come da sala d’attesa, lieve e pacata prende il posto di quei rumori disordinati. È quasi piacevole ora, il corpo si rilassa. I due blocchi pendenti dal soffitto che fino ad ora stavano immoti cominciano a girare, lentamente, a scatti inizialmente, destra, sinistra e poi di nuovo, senso orario, senso antiorario. Il loro muoversi comporta rumore, un ronzio, un’ape che mi ronza in torno senza che la paura di essere punta mi assalga. Chiudo gli occhi, ‘magari così riuscirò a rimanere ferma’ penso. Rumore di acqua, il mare che si infrange, una risata. È lui, lo riconosco. Quella risata sguaiata che inizialmente mi disturbava ma ora fa parte di me, della famiglia. Rumore di passi, lenti, un calpestare di ghiaia, come popcorn sfrigolanti. Il vento, un soffio che si infiltra tra gli alberi, tra i miei capelli, come fossero rami, fronde, in movimento, che danzano. Grigio, verdone, blu. Si mischiano come una grande macchia. Sono in realtà tre cose distinte: il cielo, i tronchi muschiosi, il mare, l’oceano in realtà. Camminiamo. Il nostro moto non è volontario, o almeno non lo sembra, i miei muscoli li sento atrofizzati. Forse non sono davvero dentro al mio corpo. Un ammasso di ossa che insieme a quello di lui molleggia in cerca del contatto con l’acqua fredda. Che mi risvegli. Che ci risvegli. Sento i muscoli di nuovo, quelli piccoli, minuscoli del volto, che si contraggono. Una forma strana si sta creando. Un sorriso. Riapro gli occhi, i rumori cessati, la luce fioca. Il mio volto sorridente nello specchio, ancora con il parallelepipedo tra i denti. Non avrei dovuto muovermi. La porta dello stanzino si apre, il dentista mi avvisa che la lastra panoramica è completa e ben riuscita. Erano tutti ricordi.

Stella Frates 

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Sandro Siervo

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